Certosa estate

La Rana

E’ da un pò di tempo che non pubblico uno dei miei famosi racconti, eccoci qui, miei cari e fedeli lettori!

L’attesa (purtroppo per voi) è terminata e quindi vi tocca! Questa volta, visto il tempo tremendamente autunnale che ci ha colto ho pensato bene di allietarvi con questo racconto un pò datato ma che è perfetto per una serata come questa. Vi toccherà leggerlo tutto di un fiato e magari poi mi direte cosa ne pensate, come sempre: onesti e cattivi! Buona lettura a tutti voi, e fate attenzione alle rane, mi raccomando…

 

 

Io ti uccido.

Non ho altra scelta, lo capisci questo, vero?

Devo ucciderti, perché non mi lasci altra scelta, la colpa è tua, questo ti è chiaro?

Come posso lasciarti vivere dopo tutto ciò che hai visto?

La voce maschile le giungeva ovattata, leggera, come da una bottiglia proveniente da un’altra dimensione. Chiara avrebbe voluto urlare, o almeno parlare, ma le era impossibile. Aveva mani e piedi legati tra loro e del nastro argentato a tapparle la bocca. Gli unici pensieri che le venivano erano che i Mythbusters avevano ragione: quel nastro argentato è davvero versatile. E che suo padre al contrario lo utilizzava per i paraurti della macchina o per la sua bici quando era ancora alle elementari e le si staccavano i pedali.

Alla fine dei conti Chiara era ancora una bambina: aveva solo quattordici anni, ma rischiava di morire lo stesso come un’adulta. In balia di un pazzo. In balia del suo vicino di casa che tutti consideravano tranquillo e gentile e che aveva solo tre anni più di lei.

Conosceva Lele da sempre.

Lei era l’unica coetanea che lo considerava.

Gli altri a scuola lo chiamavano “la rana” perché era piccolo e magrolino, dalla pelle sottile e verdognola, una carta geografica di vene lo segnava, un universo parallelo sconosciuto a tutti.

In effetti, Lele aveva un aspetto malato, quasi spettrale. Sin dall’infanzia sua madre lo aveva tenuto in casa facendolo mangiare poco, nel terrore che ogni cosa lo potesse uccidere. Ogni pasto, ogni gioco, ogni alito di vento, ogni respiro poteva essere letale.

Dopo la sua morte, il padre gli aveva concesso quella libertà che però non sapeva usare; Lele non era in grado di vivere fuori casa, tranne la scuola, tutto il resto era pericoloso e mortale.

Chiara però era gentile e simpatica; una luce brillante in un’oscurità totale. Lei non aveva pregiudizi su nessuno, tantomeno sulla rana. Per lei era un soprannome buffo.

-Rana: in fondo le rane sono animali carini, non trovi? Hanno la libertà di saltare tutti gli ostacoli, sono liberi e leggeri.

-Beh, Chiara, credo tu abbia ragione; le rane possono andare dove vogliono, alla fine non è poi male essere considerato tale.

Anche se l’intento dei compagni era l’opposto, Lele aveva accettato anche questa provocazione.

Alla fine, grazie a Chiara poteva stare in mezzo agli altri senza sentirsi lo strano.

Anche lei lo era: portava i capelli con mechés violette multicolore, abiti che cuciva assieme a sua madre e ogni sorta di strano monile scovasse nei mercatini. Nonostante questo, però era una delle ragazzine più popolari della zona, amica di tutti, cui si perdonavano le stramberie e le amicizie fuori luogo. L’amicizia con Lele era certamente fuori luogo. Lui non era solo strano, era anche macabro.

Tutti ne avevano paura, perché aveva l’abitudine di guardare l’interlocutore come per attraversarlo da parte a parte. Era un diverso. Parlava poco, a bassa voce, quasi cantilenando e le persone preferivano non sentire quel suono sgradevole. Suo padre gli permetteva di fare e avere tutto ciò che voleva, non aveva importanza, anche perché era molto occupato: era il medico del paese e lavorava tantissimo, era bravo e scrupoloso e tutti lo rispettavano.

 

Chiara sentiva uno strano odore di chiuso, muffa, stantio e morte dentro la scatola in cui era stata rinchiusa; era stranamente comoda in quella posizione fetale, nonostante la paura le chiudesse la gola, le vene, i pensieri. Si era arrotolata in sé stessa per non sentire la solitudine, l’ansia e per alleviare tutta quella paura cieca e sorda che non credeva di saper provare.

La paura ha il sapore metallico del sangue, la consistenza vischiosa del muco, il colore scuro della notte. Aveva paura, ma era in una posizione comoda: come se il destino cercasse di fregarla in qualche modo.

 

Chiara, lo vedi vero che non posso liberarti, lo senti? Se lo facessi racconteresti tutto quanto, sai anche tu che non posso liberarti, è inutile che continui a chiedermi di lasciarti andare, basta ti prego, o sarò costretto a fare quello che adesso non voglio.

Porca miseria Lele, ma se non posso parlare! Mi hai messo il nastro d’argento sulla bocca! Riesci forse a sentire la voce nella mia testa? Non è possibile, e poi io non ti ho chiesto nulla. Con te non ci parlo, sarebbe inutile.

 

Fuori nel frattempo aveva ripreso a piovere.

Pioveva a dirotto quando Lele le aveva piantato la siringa ipodermica piena di sonnifero, lei non si era accorta di nulla a causa di tutti i tuoni che cadevano, lo aveva salutato mentre si recava in palestra; era caduta al suolo come un fazzoletto di seta, leggera, senza far rumore.

Era stato facile per suo padre prenderla in braccio e chiuderla nella scatola sotto il letto matrimoniale nella camera degli ospiti, lui era grande e forte, non una rana debole come Lele.

Non si erano detti nulla, non lo facevano mai in quei momenti, non c’era bisogno di parlare: a suo padre dava fastidio la cantilena bassa emessa dalle corde vocali del figlio.

Aveva iniziato a chiudere le ragazze nella scatola il primo anno di matrimonio, molto prima dell’arrivo di Gabriele, quando il figlio era ancora un progetto nella mente del demonio.

Sua moglie era già malata, vedeva i fantasmi e la scatola era l’unico modo per non sentirla parlare con loro. All’inizio erano solo chiacchiere.

Lui le chiudeva lì dentro e parlava con loro, non faceva niente di male; dopo qualche ora le lasciava libere, loro non si ricordavano nulla perché le drogava. Molte delle sue pazienti erano state dentro la scatola sotto il letto senza saperlo nemmeno. Questo gli conferiva un potere che utilizzava inconsapevolmente per soggiogare il prossimo. Inclusi moglie e figlio.

Quel potere che aveva esercitato appena il figlio era stato abbastanza grande da aiutarlo.

Non gli era servito pregare: Lele la rana era molto più perverso di lui. Era entusiasta di poter aiutare: adesso erano una famiglia, a tutti gli effetti. Strana, particolare, ma una vera famiglia.

Di quelle che i panni insanguinati li lavano tra le quattro mura.

 

-Lele, per favore, non fare rumore! Sto cercando di guardare la televisione, sono stanco morto, chiaro? Puoi tacere? Grazie. Non vorrei che qualcuno ti sentisse.

Il figlio emerse dall’oscurità del salotto, rotta solo dal lucore dello schermo del televisore, come i fantasmi di sua madre. Il padre ebbe un sussulto, come sempre.

-Scusami papà, non volevo disturbarti, solo che Chiara non la smette di lamentarsi.

La puoi sentire solo tu. Solo tu. Non ha fiatato. Tale quale sua madre, perdio.

-Adesso lasciala stare, chiaro? E lasciami guardare Criminal Minds in pace, è l’ultimo episodio.

-Va bene, vado nella mia stanza a studiare.

-Ecco, bravo, che domani hai il compito in classe di latino e non mi sembra tu ti stia applicando a dovere nella materia.

 

Sic transit, Gloria mundi.

Memento mori.

Mors tua vita mea.

Vale pulchra, sponsa mea.

Qui huc intrasti omissa spe.

Ego amo usque ad mortem. Ho studiato papà, ho studiato tanto, non preoccuparti.

Nessuno nella casa sapeva che Chiara era sveglia. Nessuno la fuori sapeva dove fosse finita.

Per i suoi era in palestra, stava organizzando la trasferta di domenica alla gara; per i ragazzi in palestra invece si doveva essere dimenticata l’appuntamento. Non era da Chiara dimenticarsi una cosa come quella, ma non c’era altra spiegazione.

Elisa, la sua migliore amica, al termine dell’allenamento iniziò a mandarle messaggi.

 

Ehi, scimmia, dove 6 finita?

Scimmia, rispondi!

Abbiamo deciso che ci porta

Il padre della Silvy, quindi puoi dire a

Tuo padre ke nn abbiamo bisogno!

Chiara, dove 6 finita?

Rapita dagli omini verdi?

Elisa ci era andata vicino: non erano omini verdi ma il vecchio rana in persona.

 

-Susy, ma perché la Chiara non torna dalla palestra? Si fermavano per una pizzata?

-No papà, almeno, a me non ha detto nulla. Mamma: chiedi a lei che sa sempre tutto.

Il padre decise di chiamare sua moglie per sapere che fine avesse fatto Chiara.

Sua moglie in effetti, sapeva sempre tutto, ma questa volta non sapeva nulla.

Era ancora al lavoro e aveva il cellulare spento. La riunione coi pezzi grossi della Unicredit sarebbe andata per le lunghe. Anche la sua serata col direttore sarebbe stata molto lunga; ma questo, suo marito, non lo avrebbe mai saputo.

La sera si stava dilatando con tentacoli di ragno su quel pezzo di mondo in provincia di.

La sera aveva appena incominciato a diventare oscura.

Anche se l’oscurità, in casa del dottore, sembrava non avere mai fine ne inizio.

 

Avanti bambina accendi il mio fuoco avanti bambina accendi il mio fuoco avanti bambina accendi il mio   fuoco avanti bambina     accendiilmiofuoco avantibambinaaccendiilmiofuoco avantibambinaaccendiilmiofuoco avanti avantiavanti avanti bambina…

 

Lele non riusciva a smettere di masturbarsi, se suo padre lo avesse scoperto, certamente gli avrebbe di nuovo inflitto la sua “cura”. Lele non voleva la “cura” perché era troppo dolorosa. La carta vetrata era stata la peggiore di tutte le sue “cure”. Le cinghiate sulla schiena, l’acqua bollente lungo le gambe, le settimane senza cibo non erano nulla in confronto alla carta vetrata. Aveva ancora il prepuzio rovinato a distanza di tre anni. Era diventato bravissimo a non farsi sentire. Teneva molto al suo prepuzio.

 

Il padre era nella stanza degli ospiti adesso. Completamente nudo.

Aspettava.

Il momento perfetto in cui la notte senza luna fosse stata completamente scura. Tanto da nasconderlo. Per trasformarlo in una sagoma scura e indistinta. Un fantasma.

 

-Papà, allora, cosa ti ha detto mamma?

-Non risponde, si vede che la riunione non è ancora finita, spero mi richiami.

-Vedrai che Chiara è con l’Elisa, e come sempre avrà la batteria dell’IPhone scarica, non ti preoccupare per nessuna delle due.

-Non sono preoccupato, però potrebbero anche avvisare.

 

La batteria dell’IPhone di Chiara era al 98%. Sua madre invece aveva il Samsung completamente scarico. In ogni caso era spento dentro l’elegantissima Kelly Hermes sul divano di chinz anni settanta della casa di montagna del direttore. Troppo presi l’uno dall’altra per preoccuparsi delle notti senza luna, dei mariti scocciati e dei demoni che infestano il buio. E soprattutto ignari dei vizi segreti dei vicini insospettabili.

 

La paura di Chiara era palpabile, odorosa. Era ancora comodamente nella sua posizione fetale, con lo stesso terrore attaccato alla spina dorsale. Non aveva idea di dove fossero finiti i suoi vestiti, il suo telefono, il borsone della palestra. Le sue Nike nuove fiammanti. Il Save the duck rosa regalo di sua sorella. Non sapeva nemmeno se il legaccio dei capelli fosse nella scatola assieme a lei. I capelli le ricadevano scomposti sul viso, ma lo spazio angusto le impediva di spostarli, erano l’unica certezza che aveva di essere viva e non nel regno delle ombre.

Sentiva il respiro pesante provenire ovattato dall’esterno e aveva capito che non si trattava del suo amico Lele. Lui non respirava così; era il respiro di un forte fumatore. Suo padre, il dottore, era un forte fumatore. Lei non capiva il motivo per cui il dottore respirasse così intensamente. Percepiva il profumo al muschio bianco che emanava dal suo corpo; si convinse che fosse lui, quel profumo pervadeva il suo studio in ogni angolo, ogni volta che ne usciva un leggero mal di testa la colpiva. Adesso il male era diventato pulsante, pervasivo, ingombrante.

 

Dottore, se è lei, la prego, mi liberi, non so se Lele mi legge nel pensiero, beh, se le riesce, lo faccia lei, mi liberi, la prego. Non voglio e non posso morire. La prego, mi lasci andare, non permetta a suo figlio di farmi male. Non capisco cosa dovrei aver visto, non lo so. So che lei è una gran brava persona, mi ha sempre aiutato, la prego: lo faccia anche questa volta…

Il dottore era ancora lì, fermo, immobile, una statua gotica, una cattedrale di morte e distruzione.

Nudo, imponente, odoroso di muschio e ormai visibilmente in erezione. Vedeva il suo contorno riflesso contro il muro dal lampione, quello che a tratti si spegneva come una luce stroboscopica, quelle delle discoteche anni Ottanta. Vedeva il suo membro come una spada che si stagliava contro il muro, tenebra di piacere e morte.

Silenzioso come una pantera aprì il cassetto del comodino e ne estrasse una scatolina ricoperta di raso rosso.

 

Chiara sei bellissima, ti prego, diventa mia. Avanti bambina accendiilmiofuoco. Non smettere mai.

Ti voglio come non ho mai voluto nulla al mondo. Ti voglio. Tenere la tua mano nel buio. Accarezzarti i capelli, stringerti forte, tanto forte da toglierti il respiro. Stringerti tanto da ucciderti.

Il dottore, silenzioso come i fantasmi senza catene, sfilò dalle sue guide la scatola.

Era piccola, giusta per una ragazza sottile e non troppo alta; perfetta per una ragazzina delicata come Chiara. Lei era Perfetta. E sarebbe stata la prossima.

 

La sua amica Elisa le mandò ancora qualche messaggio. Cui nessuno rispose mai.

Sua madre pensava al direttore. Il direttore pensava alla nuova cassiera.

Il padre e la sorella cenavano assieme in cucina con gli avanzi della sera precedente: pasta al forno, cheesecake alle fragole, coca cola sgasata.

Lele continuava a masturbarsi nel buio e nel silenzio nella sua stanza. Senza pensare alla striscia di carta vetrata che poteva colpirlo dritto sui testicoli.

 

Il dottore aprì la scatola di raso rosso, la pioggia era sempre più forte, lampi e tuoni tanto forti da rompere i timpani irrompevano nella stanza nonostante le finestre chiuse. Chiara pensò che sarebbe morta durante una tempesta. O che forse le avrebbero risparmiato la vita per morire sotto la pioggia.

 

I vestiti e tutti gli oggetti della ragazza erano riposti ordinatamente nello stanzino delle cose perdute, quello dove tutti gli alti abiti, borsette, scarpe, specchietti, cosmetici, oggetti vari delle altre erano riposti, come se da un momento all’altro le legittime proprietarie tornassero a riprendere le loro cose. Sarebbero rimasti per sempre senza le loro proprietarie, oggetti dimenticati, che nessuno sapeva fossero lì. Ricordi di tempi e spazi ormai persi, che non si sarebbero ripetuti.

 

Lele si addormentò come faceva tutte le sere, sfinito e senza aver ricevuto nulla in cambio.

 

Il dottore estrasse la striscia di cuoio ricoperta di carta vetrata, s’inginocchiò di fronte alla scatola e incominciò a masturbarsi forsennatamente. Il sangue schizzò sul coperchio della scatola chiusa, aggiungendosi a quello ormai secco delle volte precedenti.

Non era tutto del dottore, quel sangue.

C’era anche quello delle inquiline che avevano soggiornato nella scatola per tempi variabili.

Qualcuna poche ore. Altre intere settimane. Dopo un po’ di tempo si era stancato di lasciarle andar via, voleva tenerle con sé.

Così iniziò a ucciderle.

Strangolandole, picchiandole a morte, accoltellandole. Ogni volta trovava un metodo nuovo.

Chiara però era diversa dalle altre; le piaceva molto quella ragazzina piccola e sottile dai capelli biondi. Non voleva lasciarla andare, ma era pur sempre troppo rischioso. Se l’avesse lasciata libera avrebbe detto tutto, ma non poteva nemmeno tenerla nella scatola per giorni, avrebbe destato sospetti.

Adesso però non aveva tempo per questi dettagli tecnici; non voleva rovinare il momento.

Sangue e pezzi di pelle finivano sul coperchio, a un certo punto, come sempre, il bruciore diventava insopportabile e quindi lasciava cadere la striscia per completare l’opera a mani nude.

Non emetteva nessun rumore, come se facendolo avesse potuto svegliare i fantasmi.

Chiara non sentiva nulla. Solo la paura folle che le chiudeva gli occhi e la gola e il respiro.

 

Lele dormiva il suo sonno stanco.

La madre e il direttore non dormivano proprio. Questa sarebbe stata l’ultima occasione per dormire, ma non lo sapeva ancora. Dopo non avrebbe più avuto una notte di sonno.

Il padre voleva preoccuparsi, ma la sorella maggiore non glie ne dava occasione.

 

Sangue e sperma imbrattarono per l’ennesima volta la sommità della scatola. Il dottore, esausto, chiuse gli occhi un attimo. Quando li riaprì, aveva già aperto la scatola.

Chiara non credeva a ciò che vedeva.

Il dottore era sporco di sangue, la guardava senza parlare.

Lei non riusciva nemmeno più a pensare.

Stava per scoprire cosa si prova a morire.

La prese fuori dalla scatola, la strinse forte a sé e iniziò a cullarla, come se volesse mandare via la paura e l’incertezza. Iniziò a cantilenare qualcosa d’incomprensibile, adesso non sembrava più il dottore ma suo figlio Gabriele la rana. Una fastidiosa nenia tediosa le trapanava il cervello, il sangue caldo dell’uomo gli imbrattava le cosce e le sporcava la schiena. Non sapeva che quel sangue era misto al sudore e allo sperma. Adesso non aveva più importanza.

 

Gabriele dormiva, profondamente e senza far rumore.

Chiara lasciò questo mondo a favore di quello delle ombre.

Passò dalla paura, al sonno, alla morte senza dolore. La siringa era brillante nel buio, e fu l’ultima immagine che vide sulla terra.

 

La pioggia era sempre più forte, una cacofonia di gocce sull’asfalto, i tetti, le automobili. Tuoni e lampi e acqua.

 

Il dottore continuò a cullare la ragazzina che diventava sempre più fredda, attimo dopo attimo. L’aveva addormentata per sempre per poterla tenere con sé.

Questa volta non l’avrebbe sepolta da nessuna parte.

L’avrebbe lasciata nella scatola. Sarebbero rimasti assieme per l’eternità nella scatola, in un abbraccio mortale. Assieme fino alla fine dei tempi.

 

Per sempre.

 

Gabriele lo trovò il mattino dopo.

Si era iniettato la stessa mistura che aveva somministrato a Chiara: cianuro e chetamina.

Erano sdraiati entrambi, lei nella scatola e lui sul letto matrimoniale. Entrambi nudi.

 

Chiuse la porta, si preparò la colazione, abbondante e deliziosa, accese la televisione e si mise a guardare i cartoni animati del sabato mattina: Bear nella grande casa blu.

Fuori aveva smesso di piovere, ma minacciava altra tempesta.

Nel frattempo, i soccorritori si erano radunati davanti alla casa dei vicini.

Lele, che era allegro quel mattino, e in vena di gentilezze uscì sul portico per dare indicazioni precise e dettagliate su dove trovare Chiara.

 

Scese in cantina con calma, prese il fucile del nonno, e decise di decorare la parete riverniciata da poco col sangue e i brandelli del suo cervello. Avanti bambina, accendi il mio fuoco.

Le sirene inondavano il cielo e l’aria ormai irrespirabile. Lele era andato per sempre.

Nessuno pianse per la sua morte.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Categorie: Arte del Crimine, Attualità Vintage, Racconti, Romanzi, Scrittoio

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