Bestie da vittoria ovvero come riflettere su questo matto ventisedici

Bestie da vittoria
Danilo Di Luca, Alessandra Carati
Biografia
Piemme
2016
Brossura
242

Soprannome: il Killer. Era un campione, vincitore di gare prestigiose. Aveva un luminoso futuro davanti a sé. Fino a quando non è stato trovato positivo a sostanze dopanti. Non una, non due ma ben tre volte. E’ il primo caso in Italia di espulsione definitiva. Ora ha deciso di raccontare il ciclismo come nessuno altro ha mai fatto prima, perché nessuno dall’interno può farlo. Ne emerge il ritratto di un mondo sotterraneo e malato, di cui l’atleta è spesso la vittima consapevole. Pupazzo di carne da gettare in pasto agli sponsor, ai tifosi, all'agone. Come lui, come Pantani prima di lui. Un mondo che solo chi non ha più niente da perdere può svelare.

La gente non si rende conto che cos’è correre una tappa da 250 chilometri dopo venti giorni che sei in sella a una bici, la neve l’acqua il freddo il caldo la febbre la dissenteria il dolore la fatica. Quando sai che domani devi correre la stessa distanza e anche il giorno dopo e il giorno dopo ancora, tutto quello che puoi ingerire lo ingerisci. Non siamo eroi, siamo dei pazzi scatenati, dei coglioni. Gente che sta in dialisi, che si è bruciata le palle, che è morta per ispessimento della parete cardiaca. Per un ciclista l’importante è vincere, non pensi mai che ti ritiri, che ti possono beccare, che ti puoi ammalare, che puoi farti male. Esiste solo la vittoria.Quando i direttori sportivi dicono “non so niente” mentono. L’ambiente non ti obbliga  a doparti, ti sollecita perché tutti hanno interesse che tu vinca, la squadra e gli sponsor hanno bisogno del campione, il campione crea un indotto che dà da mangiare a un sacco di famiglie. Ogni ciclista sa che tutti si dopano eppure nessuno parla. La verità è che nessuno di noi pensa di sbagliare, facciamo tutto quello che un ciclista professionista deve fare. (…) Come si fa a dire la verità e a essere credibile? Bisognerebbe accettare l’inaccettabile. Questa è l’altra faccia del ciclismo, il racconto di quel mondo parallelo fatto ‘ipocrisia, interessi e giochi di potere che sta dietro i colori, ai tifosi lungo le strade, ai carrozzoni festanti delle grandi gare. Un sistema cannibale di cui tutti sono a conoscenza, ma di cui nessuno parla., perché tutti hanno troppo da difendere. Un libro denuncia che chi fa parte del sistema non potrebbe scrivere.

Solo uno che non ha più nulla da perdere, come Di Luca, radiato a vita per doping, poteva farlo. (P. 3 dalla prefazione) 

 

Il pazzo 2016 (finalmente) si è dissolto in fiumi di bollicine e sospiri di sollievo.

E’ ormai ora di fare dei bilanci:  il primo anniversario dell’Anonima Officina è adesso. Quante cose sono successe: cose brutte, bruttissime, ma anche tante altre inaspettatamente Belle (e chi era presente o ne fa parte lo sa) che hanno cambiato le prospettive stesse dell’Officina. C’è una grossa novità che prenderà il via con il 2017, ma siccome mi diverto a lasciarvi sulle spine vi consiglio di seguirmi, rimanete sintonizzati e non ve ne pentirete, lo prometto.

Il Capofficina vuol essere onesto con voi e quindi non ci girerò troppo attorno: so che potevo fare di più, avrei dovuto lavorare più intensamente, lo ammetto, a mia discolpa però metto sul piatto anche tutta l’ingenuità e l’inesperienza in queste cose, mi sono fatto fermare da inutili facezie. Ho imparato moltissime cose che metterò a frutto nel nuovo anno, per crescere e prosperare, come la Fiat, no, va. Magari come il Monte dei Paschi, no! Come la Parmalat. Ok, crescere al meglio delle mie possibilità che forse è meglio.

Voglio approfittare della recensione di questo (gran bel) libro per parlare di un po’ di cose con voi: della Fame della Fama della solitudine la fatica le lacrime del successo e di tutte quelle cazzate semiserie che queste cose si portano appresso. Di cosa accade alla gente quando diventa famosa. Il successo è quella cosa che succede quando meno te l’aspetti e ti travolge, anche quando lo cerchi arriva quando fa comodo a lui e purtroppo ha anche una data di scadenza. E la data non sbaglia di un giorno, statene certi. Vi chiederete cosa possa azzeccarci la biografia di un ex ciclista radiato per doping con l’Arte il Cinema o la Musica. Adesso ve lo spiego.

Se non avete mai visto una gara ciclistica forse farete molta fatica a capirlo. E parlo del Mortirolo del 1994 con Marco Pantani che attacca Berzin e Indurain, di Bartali al Tour del 1948, il record dell’ora di Moser, Bitossi e il suo cuore matto. Perché non sai mai cosa c’è dietro la curva, come diceva Eddie Merckx. E solo per citarne qualcuna. In fondo questo non è un blog di sport, portate pazienza…

Il ciclismo è un’arte solitaria e faticosa, un rumore, ancor prima di uno sport (come disse uno che ne sa molto più di me), un suono che sfreccia davanti a te che aspetti ore di veder passare la carovana dei ciclisti. Mi ricordo quando dopo la scuola aspettavo per ore il passaggio del Giro d’Italia, mangiando un panino al volo per sentire il giro con i miei stessi occhi. Proverò a descriverlo per chi non lo ha mai vissuto: è una fucilata secca che ti colpisce in mezzo agli occhi, un rumore sordo di stantuffi sui pedali, borracce vuote che volano in aria, cartacce d’integratori, bucce di banana. Il tutto accade nel tempo che  impieghi a soffiarti il naso. Passa talmente in fretta che se non stai attento è già passato.

Il ciclismo è anche questo. poi c’è il resto.

E penso a Fausto Coppi e Giulia “Dama Bianca” Occhini. La Occhini finì in gattabuia per amore, condannata a un mese di galera e domicilio coatto, un amore talmente folle da farli scappare in Messico per sposarsi liberamente. E pensare che fu l’ex marito della donna a metterli in contatto perché lui voleva l’autografo del campionissimo: attenti, uomini, a cosa desiderate…

Senza dimenticarsi del “Sultano” Jaques Anquetil, la cui prima moglie diventata sterile arrivò a concedergli la figlia di primo letto affinché potesse diventare padre. Anquetil che salterà sempre l’antidoping,  diventato obbligatorio dopo la morte di Tommy Simpson sul Mont Ventoux. Anquetil che arriverà a staccare un assegno in bianco per il Tour del 1965 a chi eviterà la vittoria del suo rivalissimo Poulidor.

Gino Barali, l’italiano dal naso triste come una salita, dopo il 1943 nascondeva documenti falsi nel cannone della sua bici per salvare la vita degli ebrei italiani, che anche loro avessero ancora gli occhi allegri da italiani in gita.

Poi con gli anni novanta arriva lui, il sovrano assolu(tamente) antipatico: Lance Armstrong. 7 Tour de France, una medaglia olimpica e svariate altre vittorie espropriate dall’USADA e dal CIO. L’uomo talmente incapace di stare senza vincere da fare cose folli pur di stare sul tetto del mondo. Non riesci a fartelo risultare simpatico nemmeno quando ha il culo per terra e dice ad Oprha che si, è un  grande coglione e ben gli sta. L’antipatia non dipende dal fatto che vinceva sempre: era il modo in cui trattava il mondo intero a fartelo odiare cordialmente. Armstrong ha portato lo sport e tutto il nostro discorso (aspettate e vedrete) su un altro livello, un livello distruttivo, un piano che potremmo definire nucleare.

Ed è qui che arriva Danilo Di Luca. Il Killer di Spotorno che sale sui pedali e se ne va via. Il ragazzo d’Abruzzo tanto timido da diventare sbruffone, che non sa stare davanti alle telecamere, non sa dire quello che dovrebbe, il Campione che non sa farsi amare dal giro che conta.
Il primo corridore italiano radiato a vita per doping. Nel libro Danilo non si vergogna, apre il suo cuore e dice quello che pensa, che sa, che conosce e lo fa senza filtro. E’ inevitabile: fai il tifo per lui anche quando fa delle cazzate perché è una persona sincera, un timido sfrontato e non una testa di cazzo come il texano. Lo so che non è politicamente corretto, ma se è quello che cercate beh, allora avete sbagliato posto.

Si parla del ciclismo come di un sistema dove ogni cosa è lecita, un mondo disgiunto dalla realtà dove i partecipanti sono dei solitari incapaci di fare gruppo tra loro, dove in fondo ognuno è per se stesso e tutto il resto vada a farsi friggere. La solitudine di chi è abituato a stare 4, 6 ore al giorno col culo piantato su una sella e il male alla schiena, la pioggia e il vento ad accarezzargli la faccia e una gran voglia di arrivare in fondo e farlo per primi.

Danilo Di Luca che a 8 anni vuole una bici tutta d’oro. Mi ha fatto sorridere, e mi ha fatto pensare a Dorothy che non è più nel Kansas, al viale lastricato d’oro che ogni talento percorre senza sapere che a volte è pirite. Di Luca che scala il Passo Lanciano come test di forma e ci racconta, senza tanti giri di parole, che si è dopato, ha scopato donne che non erano la moglie e ha detto cose che non avrebbe voluto o dovuto dire. E’ l’amore per la bicicletta che lo spinge, la passione per la fatica e la disciplina che tante volte non rispetta. Il rapporto con Marco Pantani e le convinzioni granitiche sulla sua fine umana e sportiva.
E’ un uomo onesto, diretto, che ha percorso un viale di pirite che tutti spacciavano per oro.
La fatica sovrumana dello sportivo, la sua Fama e la Fame che tanto lo trasforma in una rockstar. Si, esatto cari i miei piccoli pantanini. Lo sportivo di vertice è una fottuta industria che produce milioni, contratti, avvicina sponsor, amici nemici e tutto quello che deve fare è continuare a vincere. Nel volgere di una notte è pieno di amici, donne (perché il ciclista è notoriamente un valido prestatore d’opera, come fa notare Di Luca stesso) macchine veloci, sostegni d’ogni sorta e tutto quello che il denaro può comprare. Non è proprio come per le star? Fino a che puoi spendere ci sarà qualcuno pronto a farlo per te.

Marco Pantani era Kurt Cobain, un artista troppo fragile per resistere ai calci nelle palle.
Danilo Di Luca invece è come Ozzy Osbourne che prende le mazzate nelle palle, cade e si rialza.

La Fame e la Fama sono uguali da tutti i lati in cui le guardi; non importa se gli corri dietro in bici o nel fondo di un palco, loro vanno forte e starle dietro costa fatica. Lo sportivo di vertice è solo di quella solitudine estrema che rende l’uomo un tutt’uno con se stesso, artista dell’impossibile che dimentica  tutto il resto, come se il resto non ci fosse nemmeno. Danilo Di Luca racconta senza paura che lo sportivo di vertice proprio come la rockstar non conosce il mondo, non ne ha bisogno perché ci sono altri che pensano al suo posto e che gli consentono di vivere dentro un’ovatta imbevuta di novocaina, in una dimensione dove esiste solo lui e tutta la determinazione a vincere sopra ogni cosa. Ogni sportivo al vertice è una fottuta rockstar che non sa stare al mondo; ci vuole fegato ad ammetterlo con candida consapevolezza.

Questo libro si legge in un sola cannibale boccata e ve lo consiglio soprattutto se pensate che andare in bici sia uno sport inutile, sciocco, poco interessante, noioso. Leggetelo se non vi piace lo sport perché cambierete punto di vista e potreste scoprire che quando ci metti la passione le cose diventano vive pulsanti incostanti a volte, ma sempre reali e palpabili. Leggetelo soprattutto se amate o (come me) avete amato (tanto) questo sport fatto di fatica sudore lacrime sangue che nel tempo si è visto costretto ad assumere medicine e bugie per sopravvivere a se stesso. I vertici sono quelle zone fredde dove il ghiaccio ti schiaccia in una morsa pericolosa e le bugie rimbombano più profondamente. Di Luca si racconta senza inutili suppellettili in un libro che sembra un romanzo scritto col sangue che cola da vecchie ferite aperte che faticano a chiudersi, ma che comunque ci provano a guarire. Senza la certezza di cadere non si sale nemmeno in bici; Di Luca è caduto e si è rialzato più volte. E come tanti campioni prima di lui è finito nel fango ma lo ha accettato con classe, si è ripulito la maglietta ed è tornato in sella. Leggete Bestie da vittoria perché è scritto bene e corre via veloce ma lasciandoti qualcosa che prima non sapevi, o avevi dimenticato.

Le rockstar sono proprio come i ciclisti: fragili sole incompiute e incomprese senza corazza davanti al mondo e tremendamente piene di se stesse. Ma è proprio il motivo per cui la Fame li coglie e li fa pedalare come non ci fosse domani, come il Sultano Anquetil che poteva correre con una coppa di Champagne sulla schiena senza farne cadere una goccia o Jimi Hendrix che suonava con la mano sinistra come se ne usasse due.

Leggetelo soprattutto se da bambini anche voi giocavate sulla spiaggia con le biglie di plastica colorate, quelle con le foto dei grandi campioni dentro. Io avevo Moser, Binda, Coppi, Bartali, Merckx, Nencini, Bitossi e se non mi sbaglio anche Baronchelli.
Anche se non ho mai posseduto quella di Zandegù, la cui leggenda diceva che andasse più forte di tutte le altre…

 

 

 

 

Mentre leggete potreste ascoltare questo vecchio pezzaccio di Paolo Conte. Perché il ciclismo è prima di tutto un suono che si vede…

 

 

Categorie: Al peggio non c'è mai fine, Attualità Vintage, Biografie, Libraio, Personaggi, Saggistica, Scrittoio

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