E se la mamma gli avesse detto che è pericoloso mettere le dita nella presa? Divagazioni semiserie sull’elettricità, il ghiaccio secco e gli scrittori

E’ notizia di questi giorni. Stringente attualità. Una quattordicenne ha avuto la sua “seconda possibilità”. La vicenda è tanto nota che non importa che la riporti anche io. Questa ragazzina adesso è in un laboratorio americano e “dorme” a -196 gradi centigradi. I suoi fluidi corporei sono stati asportati. Il suo sangue è stato sostituito con dei crioprotettori (nome elegante per definire l’antigelo) affinché le cellule non producano pericolosi cristalli di ghiaccio, e l’azoto liquido è il suo nuovo universo sospeso sul (nulla?) quale tutto il mondo sogna la vita futura (eterna).

Stiamo vivendo (finalmente) le scoperte scientifiche che fino a pochi decenni fa sembravano poter albergare solo nella letteratura, la corsa allo spazio è tornata prepotentemente di moda e paradossalmente l’umanità tende a regredire verso certe forme di delirio spirituale post apocalittico, dove ogni conquista faticosamente fatta dall’umanità viene considerata come deleteria e mortale, dove il futuro uccide e il passato è l’unica via di salvezza. L’umanità vive ormai sospesa tra sogno e reale possibilità di saltarci fuori una volta per tutte.

Poi arriva questa tegola. Che ci riporta indietro di un casino di anni. Che ci fa ricordare quel fastidioso puntiglio che tendiamo a dimenticare sempre, ovvero che siamo umani, mammiferi, creature a sangue caldo e non serpenti e nemmeno orsi. Questa cosa che ci fa ricordare che anche noi, come i fermenti lattici dello yogurt di Chuck Norris abbiamo una scadenza, ineluttabile.
Credo che tutti, ma proprio tutti, anche i non appassionati abbiano pensato, anche solo in un angolino del loro cervello al mostro di Frankestein. Tutti abbiamo sfiorato l’idea del postmoderno Prometeo sognato in una notte da incubo dalla piccola Mary, perché la nostra natura inevitabilmente ci porta a considerare connessioni e interconnessioni col mondo del cinema e della letteratura (ma l’ultima solo se siamo nerd) ancor prima di iniziare a ragionare su quello che ci sta attorno.
Credo sia scontato che il Capofficina abbia subito pensato a Frankenstein, ma non solo. Subito dopo mi sono venuti in mente (con patriottismo tutto bolognese) Giovanni Aldini, Herbert West il rianimatore, e quei due simpatici signori che si chiamavano Burke e Hare. Questi ultimi erano ladri di cadaveri per la facoltà di medicina nella Edimburgo d’inizio ‘800 e nel 2010 Jhon Landis ne ha tratto un film. Giovanni Aldini fu il padre della rianimazione umana nonché ispirazione per la stessa Shelley.

Vorrei fare una digressione divagante proprio su di lui e il suo lavoro, che ha molti più punti in comune con la nostra Officina di quanti si posa credere.

Aldini era nipote di un signore che molti di noi conoscono per via di cruenti esperimenti che oggi farebbero rabbrividire tutti gli animalisti militanti, ma che nel ‘700 non sconvolgevano nessuno: tal Luigi Galvani. (Si, Lui! Quello del liceo Classico che Enrico Brizzi aveva rinominato Caimani, esattamente quello) Questo scienziato, più precisamente un fisico, che il caos (o il caso) volle fosse praticamente dirimpettaio di  un altro fisico quasi famoso, tal Guglielmo Marconi. Il Nipote da bravo artista una mattina si disse: e se… provassi a rianimare un cadavere?
Detto fatto.

 

aldini

Aldini superstar illustra il suo portento elettrico

 

In un periodo in cui i teatri anatomici competevano per spettacolarità coi teatri di tutto il mondo Aldini ebbe il suo quarto d’ora di celebrità. Presso il Royal College di Londra (sarà mica una coincidenza?) poté disporre del cadavere di tal George Foster, morto per impiccagione: Foster era l’assassino della moglie e del figlioletto. Come potete immaginare, nonostante il cadavere fosse stato appena slegato dal suo pendaglio da forca l’unica cosa che Aldini poté produrre fu uno spaventoso spettacolo di tortura post mortem. Ma si sa, la via per il successo è lastricata di macabri resti e se i primi manichini da crash test erano cadaveri, ci sta pure tutto questo.

Aldini non fu il solo a tentare di riportare in vita un morto. Anche lo scozzese dottor Andrew Ure ci provò. Facendo anche più casino del nostro Giovanni, ma siccome c’è chi possiede molta più classe di me nella narrazione, vi rimando ad una trattazione su di lui molto affascinante. (e che vi consiglio di leggere….)

Da un punto di vista squisitamente etico va rilevato che mister Foster era un assassino. E se in effetti Aldini avesse riportato in vita un tomo come quello, quali boccaporti infernali si sarebbero aperti sotto i nostri piedi?

Se invece parliamo di Herbert West, rianimatore, beh qui le cose cambiano. Questo è il parto della mente (malata e sublime) di uno dei miei scrittori prediletti di ogni tempo: Howard Phillips Lovecraft. Il racconto venne scritto nei due anni che secondo il vostro Capofficina possono essere considerati di grazia, soprattutto nel cinema e nella sua colonia più famosa: tra il 1921 e 1922.

 

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Howard Phillips Lovecraft. Il solitario di Providence

 

Lovecraft concepisce uno dei suoi migliori racconti di sempre, dove gli zombie diventano ufficialmente “figli della chimica moderna”. I morti possono essere riportati allo stadio precedente la loro dipartita terrena.

Qui le cose passano dal piano letterario ai fortuiti incroci con la vita vera.

Inizialmente West è uno studente di medicina che crede fermamente nella possibilità di rianimare i cadaveri attraverso un siero di sua invenzione. Dall’oscurità dei suoi pensieri West concepisce l’uomo come una macchina organica e quindi come tale in grado di essere aggiustata. Da bravo dottore pazzerello inizia col disotterrare cadaveri. Come da copione i primi esperimenti sono dei veri e propri fallimenti, ma il nostro non demorde perché sa bene che è la pratica a rendere Perfetti. In un crescendo che lo porterà fino ai ferali campi di battaglia delle Fiandre West proseguirà il suo traballante cammino mortale fino alle estreme conseguenze. E qui la vita reale si intreccia in maniera bizzarra con la narrativa: ad un certo punto lui e il suo compare decidono di rianimare il cadavere di un pugile di colore morto durante un combattimento clandestino: tralasciando le ovvie liminarità con il libro (magistrale) di Palahniuk esiste un curioso parallelo col mondo reale. Nel 2002 lasciava il campo da gioco terrestre per raggiungere Babe Ruth e Joe Di Maggio Ted Williams, considerato da chi ne sa uno dei più grandi giocatori di baseball di tutti i tempi (dovremmo interrogare il mio mentore) e secondo le sue ultime volontà il suo corpo è stato affidato all’Alcor Life Extension Fundation (si, proprio quella li) di Scottsdale in Arizona per essere trattato criogeneticamente. Secondo le malelingue per essere clonato, per altri invece solo per fare dispetto ai parenti serpenti.

Adesso, visto che è il motivo per cui avete pagato il biglietto, parliamo un po’ del caro vecchio Prometeo Post/Moderno di cui sopra.

Mary Shelley scrisse il suo (nostro) romanzo in preda ad una vacanza, il corrispettivo delle spring break americane. Erano lei, il suo amante Percy Bisshe Shelley, il dottor William Polidori e Sir George Gordon Byron. Più un numero molto molto ristretto di groupies.
Allora, io non c’ero, ma siccome ho esperienza del mondo tanto quanto il mondo ne ha di me so che un gruppo di giovanotti annoiati e in preda al Furor Artisticus fa cose di cui poi una volta a casa si pente. I ragazzi si rompevano parecchio perché non avevano letto le previsioni del tempo. Pioveva che Dio (non Ronnie James) la mandava, faceva freddino, perché il lago di Ginevra non è Cannes nemmeno il 16 di giugno e quindi quella sera, suppongo dopo aver dato fondo alla cantina, il piccolo Georgie decise di leggere agli astanti un libro di fantasmi dal titolo emblematico: Infernaliana. Invece che giocare al dottore Lord decise di lanciare una scommessa: vediamo chi scrive la storia (non ancora gotica) più spaventosa tra di noi? Percy e Byron che erano due gran prime donne ubriache dimenticarono la scommessa nel tempo necessario a smaltire i fumi dei bagordi. Polidori e la piccola Mary invece la presero come una roba seria.

 

Mary Shelley

La piccola Mary

 

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Percy Bisshe Shelley, corruttore di vergini….

 

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Polidori, il giocatore giocato

 

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Lord Byron: stampino di vampiri

 

quella notte nacquero le due creature che più di tutte sono interconnesse, legate, costrette assieme di ogni tempo.

Polidori scrisse Il Vampiro.
E la nostra ragazza con le palle partorì il suo figlio predestinato: Frankenstein.

Premesso che ormai anche i sassi sanno che (Viktor) Frankenstein è il nome del dottore picchiatello e il povero essere non ha nome (curiosa fratellanza mistico/empatica con It, il nano del gruppo Black Metal degli Abruptum) e che Polidori non solo venne preso in giro da stampa e da Byron ma che morì male, possiamo passare al livello successivo.

La storia della ragazzina inglese mi ha toccato. Coma ha toccato tutti quelli che scrivono, leggono o sognano zombies, vampiri e creature urlanti senza nome. Mi ha toccato in quel punto che di solito si scopre la notte al buio, quella zona di me che potremmo definire sopita, antropomorfa e abortita dal normale esito della vita. Ha sfiorato con mortale curiosità quei quartieri abitati abusivamente dai miei demoni, quella scatola di cartone (prendendo a prestito da altri, da scrittori veri con la Esse maiuscola) piena di personaggi che abitavano la mia infanzia e che non se ne sono mai andati via. La storia di chi decide che non è ancora tempo di morire. Perché ha solo quattordici anni e si sente immortale. Il giudice non se l’è sentita di dire no. Forse proprio perché erano le ultime, fortissime volontà di una giovane in procinto di morire. Vedete, chi scrive di mortacci, vampiri e di gente che ritorna lo fa per un solo motivo: perché ha una paura fottuta della morte. Quindi capisce perfettamente le istanze di questa ragazza. Morire è l’ultimo atto. (Soprattutto se come me siete Atei) Quindi deve essere Perfetto, supremo, senza sbavature.  Morire comporta non esserci più, e in una società che c’è ad ogni costo pesa sempre più, diventa insostenibile. Pensare di poter ritornare tra cinquanta o trecento anni solletica tutti quelli che scattano i selfie per vedersi le rughe peggiorare nei mesi; solleva il velo di curiosità morbosa in tutti quelli che vorrebbero sapere cosa combinano i loro pronipoti, in tutti quelli che semplicemente gli tira il culo di morie e lasciare la festa sul più bello.

Vedete, io sono un fottutissimo Capofficina Conservatore. Che crede davvero nella democrazia della Morte. Morire è un atto non solo naturale, ma anche politico. Morire è un costo sociale, economico, morale, un atto d’amore. Morire vuol dire lasciare posto, creare il Lebensraum per chi sarà dopo di noi. Morire vuol dire non dover mai dire mi dispiace.

Si muore per lasciare spazio.

Cazzarola.

Se ritornassimo a vivere forse non ci sarebbe spazio per tutti. Ma in fondo anche questo problema non si pone: i viaggi su Marte stanno diventando realtà. Forse tra cinquanta, settant’anni potremmo andare sul pianeta rosso in un tempo ragionevole, o magari dentro a bare criogeniche che ci lasceranno sulla superficie vergine ed intonsa preparati a vivere ancora. A vivere per sempre. O magari a vivere solo per altri due o cinque anni. Questo non conta, basta vivere e farlo e farlo ancora. A sbafo. E lasciare morti viventi sul pianeta madre.

E’ un bisogno connaturato dell’uomo quello di vivere per sempre. La gente scrive romanzi per farsi ricordare, scatta fotto, imbratta tele, usa metri di pellicola. Lo fa perché è dannatamente egoista, egocentrica e fifona. La morte è una roba grande che spaventa tutti. Io ci penso un casino, alla morte. Penso che potrebbe cogliermi mentre sono sul trono, come accadde al Re, potrebbe arrivare mentre guido (magari la mia Ford Mustang che possederò da ricco e famoso Capo) o mentre faccio l’amore col più bell’essere vivente del pianeta. Potrei morire quando non ne ho voglia. Potrei però decidere di farmi estrarre il sangue e impacchettare come un merluzzo a -196.

Ma davvero è quello che voglio? Perché sapete, ad oggi gli scienziati non ci saltano fuori.

E poi, se riportassimo in vita gente come Ted Bundy, Jhon Wayne Gacy, Heinrich Himmler siamo certi che sapremmo gestirli nuovamente? La prima volta con loro non è andata esattamente bene, non vi pare? Lo so che è un quesito squisitamente accademico, ma da geek mi interrogo. (geek, in tutte le sue grottesche e carnevalesche implicazioni, sia ben chiaro…)
Sono un vero geek scientifico, faccio il tifo per Andy Weir ed Elon Musk. Da piccolo ero certo che avrei fatto l’astronauta o che comunque un jet pack in garage l’avrei avuto. Credo fermamente nel futuro, nei viaggi spaziali e ci credo così tanto da essere socio Cicap. Ma al tempo stesso so che la scienza per adesso non ha certezze o conferme da darmi. Non le ha perché la domanda è stata posta troppo prima della (possibile) risposta. La scienza è così: dubita, tentenna, si evolve. Se fosse ferma e salda nelle sua convinzioni sarebbe un monolite. E i cinefili sanno che i monoliti nello spazio danno problemi, chiedetelo a Kubrick. (lo stesso accusato di essere un becero complottista) Il bello delle tecnologie è questo: avanzano dubitando in uno spazio che si evolve. E non per sfruttare la moda recentissima dell’  Ex falso sequitur quodlibet. La ricerca spasmodica del “post truth, tutt’altro. La scienza cambia e cresce con le domande ambiziose che noi come umanità gli poniamo. Un giorno forse, potremo riportare in vita Ted Williams o James Bedford (primo uomo ibernato) con successo. Ma se una volta ritornati fossero come i protagonisti dell’Herbert West? Se Walking Dead avesse ragione? Se Mary Shelley e James Whale avessero visto giusto?

Non lo sapremo forse mai. A meno che non decidiamo di farci congelare, anzi, crioconservare.

Personalmente mi piacerebbe moltissimo diventare, una volta avvenuta la mia dipartita, proprietà della società di Herbert Von Hagen oppure della Body Factory del dottor Bill Bass. Ma sapete, il Capofficina è egocentrico.

Loro possono congelarmi le chiappe in maniera tale da essere scevro da glaciazioni improvvise, ma non sanno come tirami fuori da quel -196. Non sappiamo ancora come ritornare, col corpo, con quell’istanza tutta terrena, atea, razionalista, satanica e libertina di chi desidera ardentemente vivere a 1000 fino alla fine dei tempi.  Ritornare non importa come o quando: una minaccia di vita. Non basta più vivere per sempre con libri, film o quadri, perché non tutti sono capaci di vivere per sempre. E tutti ormai vogliono farlo, non importa se si vive in presenza o in assenza, basta esserci, come se ibernarsi potesse diventare il selfie definitivo. Non critico chi vuol farlo, è lecito. In fondo io sto cercando un dentista che mi applichi i fangs sui canini, quindi dovrei astenermi sonoramente da commenti, non vi pare?

Vuol dire che una volta al varco potrei fare la fine del signor Foster. O dei cadaveri del dottor Ure. Vuol dire che forse una volta fuori dal freezer potrei giusto essere pietanza per il pic nic di Pasquetta.  Con questo non dispero: se Buzz e Neil hanno saltellato sulla luna, cavolo, noi possiamo risvegliarci tra trecento anni freschi come rose. Ma adesso no, adesso al massimo possiamo sperare che un giorno succederà.
vedete però, i Litfiba lo cantano in una loro famosa canzone.
Chi visse sperando morì, non si può dire….

 

 

 

 

Categorie: Attualità Vintage, Libraio, Romanzi, Saggistica

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