La morte viene dal tunnel e altre storie di ordinaria follia: istruiti per l’uso

 

Questo post contiene un altissimo livello di cinismo e umorismo (fuori luogo) gratuiti. Sconsigliato a chi crede nell’amore romantico, nel vissero felici e contenti e ai complotti. E a chi non sa più sognare, ridere ed eccitarsi senza You Porn. 

Questo post è sicuramente atipico perché non parleremo di film, televisione, musica o libri. Non è vero.
Ne parleremo in maniera un po’ diversa dal solito. E’ la storia più folle e mediatica che gli anni novanta ci abbiano (sfortunatamente) lasciato in eredità.
Questa storia in effetti sembra uscita da tutte queste cose assieme, anche se in realtà ne è stata letteralmente vomitata fuori, verso un infinito e oltre squisitamente mediatico (e per i ciarlatani anche medianico). A essere onesti con noi stessi questa storia è figlia della più bassa forma di fotografia esistente: quella rubata.
Quella tipologia di fotografia che mastica e poi rigurgita senza tregua ogni immagine, ogni fotogramma delle vite dei (quasi mai) famosi, quei famosi che Caparezza definisce di una fama duratura quanto i loro volti sui teleschermi.

 

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Tanto ti inquadro bella, è inutile che scappi…..

 

Il bisogno ossessivo di vedere tutto,vedere senza fondo, vedere senza fine. Immagini di vita normale di chi una vita normale non ha. Il pubblico pagante affamato e affetto da una gravissima forma di bulimia nervosa.

la storia però qui non vede come protagonista l’ennesima starlet, bensì la (mancata) regina d’Inghilterra, la principessa del popolo, la principessa operaia, per (non) essere troppo gentili: Lady Diana Spencer, icona della moda e del glamour di tutto un (mal vestito) decennio.

La povera (suo malgrado) protagonista di una brutta storia di corna, pettegolezzo feroce, crudeltà gratuita, brutalità mediatica, insensibile profanazione di una vita spesa sotto i riflettori per quasi vent’anni.

Giovane sposa ventenne del bruttino e innamoratissimo (di Camilla Parker Bowles) Carlo d’Inghilterra. Degna riproduttrice per un trono traballante.
Non è cinismo il mio, ma la presa di coscienza di un brutto dato di fatto: se ti sposi con un regnante lo fai, da sempre, da quando esistono monarchie in giro per il mondo, perché la casata necessita di fresco sangue nuovo per poter continuare a regnare incontrastata alla faccia dei nemici. Tutta la storia del romanticismo è saltata fuori nel 1937 quando Zio Walt ci ha donato il cartone animato sulla principessa più fetish di tutte: Biancaneve (sotto) e i sette nani. Prima nemmeno quei buontemponi dei fratelli Grimm avevano parlato di amore romantico tra una poveraccia e il bel principe. Nel ‘900 invece, complici altri due Windsor, abbiamo (avete) iniziato a credere alle favole; Wallis Simpson e Edoardo VIII che per puro caso si sposano proprio in quel fatidico 1937. Alla faccia del trono, trionfa l”amore”. Ma se pensiamo alla loro storia dovrebbe apparire chiaro che qui qualcosa non torna. E se le premesse sono queste, allora il disastro è inevitabile.

Mai come con Diana il paparazzismo riprende vigore, forza, spudorata baldanza. Nasce un nuovo modo di fare informazione: la schizofrenia ossessivo compulsiva da assenza.

La ricerca ossessiva di immagini della donna e dei suoi amici, amanti, dottori, camerieri, fornai, gioiellieri, ristoratori è spietata, senza quartiere. In quel periodo avevo la sensazione che nei confronti della ex di Carletto si fosse scatenata una sorta di offensiva delle Ardenne volta a screditare una “plebea” rea di non saper accettare le regali corna. Anche perché nonostante la loro facilità dei costumi (il Punk, i Metallari) gli inglesi, come noi italiani, erano e sono dei probi conservatori attaccati alle etichette come i vestiti di marca. Era impensabile che una (quasi) regnante si comportasse così, non era bastata quella maledetta yankee nazista? No. Peccato che per Carlo fosse la svolta, avrebbe potuto impalmare la sua “bella”, vivere tranquillo e finalmente  chiacchierare amabilmente con le sue piantine indossando il kilt e bevendo thé alle 17 senza il rischio di avere i paparazzi a fotografarlo. Era una cosa buona per tutti.

Il gioco era scappato di mano; Andy Warhol sarebbe staro orgoglioso di lei, ma forse non di chi cercava di imitare il suo lavoro: l’idea di un’arte popolare massificata con Diana assume proporzioni bibliche e scandalose. L’immagine riproposta in tutte le varianti diventa brutta copia di se stessa, un perfido simulacro pronto a uccidere. Non più opera d’arte, ma refuso doloroso di un’assenza ingiustificata.
L’arte perde valore, significato, viene sminuita da un desiderio massacrante e ossessivo verso una donna colpevole solo di essere bella, bionda e troppo triste per sopravvivere senza ricorrere al vomito autoindotto.

La società dell’immagine e del cinema viene momentaneamente sostituita dal suo Doppleganger, il desiderio d’immortalità viene distorto alle estreme conseguenze, il sogno svaluta in incubo tenebroso; la caccia alle streghe è solo agli esordi, e le premesse sono inevitabilmente foriere di morte.
Ieri sera, mentre ascoltavo senza davvero sentire un documentario di NatGeo mi è tornata in mente questa (bruttissima) storia. La tragedia per eccellenza degli anni novanta: la morte in presa diretta di Diana e Dodi. Mi hanno trapassato il cervello  pensieri squisitamente accademici:

  • la pochezza dell’uomo medio dinnanzi alla solennità della morte.
  • La decadenza della civiltà dell’immagine e il fall out radioattivo sulla nostra vita quotidiana.
  • La morbosa cannibalizzazione delle vite dei personaggi pubblici;

in una parola mi è tornata in mente quell’atmosfera da circo delle tenebre che quell’estate del 1997 portava con se.

Fino a pochi minuti fa non sapevo nemmeno che in rete (non nel deep web, sia chiaro) si possono trovare le foto di “Lady Diana cadavere”. (Addirittura Mistero di Italia 1 se n’è occupato, ma su questo preferisco non commentare) Sapete, in una delle mie tante vite passate ho trascorso molto tempo in ambulanza a fare il soccorritore e purtroppo di incidenti così ne ho visti, quindi non sperate che io vi metta una di quelle scempiaggini in mezzo all’articolo perché sfortunatamente per i necrofili porno attivi possiedo ancora un minimo sindacale di pietà.  Non importa nemmeno descriverle, ma se volete lo faccio. Sembrano quelle che vennero scattate alla Porche di James Dean o alla Buick Electra di Jane Mansfyeld. Ma qui c’è molto di più. C’è una madre che lascia due principi bambini al loro (mediatico) destino, un marito che finalmente potrà impalmare la fidanzatina del liceo e una suocera che tira un sospiro di sollievo. Ecco cosa vedrete se con morbosa curiosità mortifera vi accingerete a cercare questi ennesimi scatti. Di questi tempi ormai non ci facciamo più caso, possiamo vedere tutte le casalinghe del mondo e tutte le famose dell’universo in ogni posa, ma vedete, forse non ve lo ricordate, in quel 1997 ancora sapevamo scandalizzarci davanti alle foto di una persona morta in quel modo.  Riuscivamo a percepire che una festa malsana era in corso per le vie di mezza Europa, fatta di folli corse in moto, auto, moto ad acqua, bici, aerei, elicotteri, aerostati, mongolfiere e chi più ne ha più ne metta.

Il famoso/migerato Tunnel de l’Alma a Parigi che da sottopassaggio si era trasformato in location. Un tunnel diventava un set dell’azione dove le persone diventavano personaggi. Tragici interpreti di una storia che nessuno avrebbe mai voluto raccontare, ma che nostro malgrado abbiamo visto ai telegiornali all’ora di pranzo e di cena. A volte ci ha violentato, ma quel tunnel è passato nelle case di tutti; e purtroppo a volte non ci si ferma nei tunnel ma si decide di arredarli e di portarci la luce elettrica e invitarci gli amici a Natale.

 

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Sorridi cara, quando guardi l’obiettivo

 

La morte della principessa fu solo l’inizio della più grande operazione post mortem mai verificatasi nel globo terracqueo fino a quel momento, anche se non dispero di vederne una ancora più grossa per la prossima Morta Famosa. Libri, film, un funerale che permise a Sir Elton di scalare le vette di Billboard con una hit di altri tempi, complotti, macchinazioni, malignità, orticarie pruriginose, cattiverie e rivelazioni una più improbabile dell’altra.

Le notizie sulla sua morte tennero banco per giorni e notti intere, nessuno ne aveva mai abbastanza, maratone televisive, ipocriti ricordi conditi da pianti di coccodrillo. Fu una delle prime volte in cui la pluralità dell’informazione si trasformava in mortalità dell’informazione. Ogni singolo secondo era infarcito di una pienezza informativa da far girare anche le teste più salde. La vita di una donna pubblica srotolata davanti al mondo, genuflessa in una blasfema posa di sottomissione al nemico, il  veleno su di lei   è sgorgato per anni come fosse stato acqua di fonte,  un fantasma pesante che tende a non incartapecorire mai, una donna importante e famosa che ha smascherato tutti i segreti di Pulcinella di una famiglia reale antica e blasonata, il cui blasone tende a penzolare come il batacchio di Enrico VIII Tudor. Terrore per una casata e una monarchia “salvata” in ultima ratio proprio dal figlio, quello bravo, di questa povera non regina, principessa in eterno, che col suo favoloso matrimonio ha dato nuovamente in pasto un pezzo di cielo al mondo intero. Quel cielo che Diana abitava con la grazia felina che solo le donne nevrotiche e sole sanno abitare. Non mi nutro di vissero tutti felici e contenti, l’amore per me è ascoltare un bel disco di metallo pesante seduti sul sedile di una Mustang Fastback del ’69 col cambio che ti solletica le natiche, quindi non mi sono certo strappato le vesti per il matrimonio favoloso del figlio bravo, no. Se devo essere del tutto onesto con voi ho gioito di cuore per il piccolo Henry vestito da Nazi o svestito e ubriaco in un hotel di Las Vegas, e mi ha fatto pensare al parente picchiatello che aveva sposato la famigerata yankee e nascosto sotto il tappeto della storia da tutta l’imbarazzatissima famiglia reale.

Questo però non toglie che il circo pazzo di quei giorni era diventato insostenibile, una sorta di esperimento antropologico al massacro, una lotta mortale combattuta a suon di scatti rubati, concordati, esibiti, forzati. Una festa mobile che correva dietro alla nuova coppia dell’estate, la ricerca febbricitante della foto meglio di quella precedente, la necessità ossessiva di vendere copia su copia grazie al pubblico ludibrio della Principessa/ Bambola Bionda triste, anoressica, infelice, sola, ninfomane, lesbica, incinta, frigida, giovane, bella, elegante, bionda, impegnata e senza mai un attimo di pace per andarsene al Mac Donalds senza doversi preoccupare di avere sempre i capelli perfettamente in ordine e le ballerine di Gucci ai (reali) piedi.

Credo sia nata da qui la follia che oggi ci vede tutti, chi più chi meno impegnati a navigazioni di reti note o sconosciute. L’idea che una foto non può far male a nessuno.
Quella volta però la foto non solo fece male, ma fu mortale per tre persone. Non voglio entrare nel merito delle indagini, credo che tranne il mostro del Loc Ness ogni teoria sia stata portata avanti. Non m’interessa questo. La cosa interessante è la bulimica ricerca costante di adrenalina mediatica. Il bisogno fisico di vedere, di entrare nella vita di persone che nella vita non conosceremo mai. Come fossero i nostri dirimpettai, che tanto spesso conosciamo meno di questi personaggi (quasi mai) famosi.

Io non piansi per la povera piccola Diana, ma mi fece male vedere i paparazzi in moto, nascosti da caschi neri, tanto simili a sicari della mafia che rincorrevano come poliziotti della stradale la Mercedes nera di Al Fayed. Come fosse un regolamento di conti e non il tentativo di fare lo scatto del secolo.
Non credo, come molti asseriscono, che i fotografi volessero ucciderli per fare la foto definitiva. In primo luogo perché è vero che Diana vale più da cadavere, ma è anche vero che se fosse rimasta viva avrebbe potuto dare grandi gioie a tutti i contenitori di chiacchiericcio del mondo negli anni a venire. Una foto di Lady D. coi capelli bianchi e le rughe, con i nipotini, con la morettina che ha sposato il figliol bravo, mentre smina in Siria o pulisce il sedere dei bambini profughi sulle coste di Lampedusa. Come dite? Sono solo un cinico con un po’ di Capofficina attorno? Forse.

Ma ditemi: non è cinico anche solo pensare che un fotografo abbia causato la morte di tre persone solo per averne l’esclusiva post mortem fresca di giornata? Davvero credete che l’umanità ai tempi dei media è regredita allo stadio gassoso?
Io personalmente non voglio nemmeno pensarlo. Quell’atmosfera di attesa che l’estate del 1997 si portava dietro era diventata una specie di presagio di cambiamenti. Non sempre in meglio.

I mass media fecero un passo avanti e pure i famosi tre indietro; le regole d’ingaggio per la fama vennero riscritte, come pure il fair play tra famosi e fotografi. Il modo di vedere e guardare le foto cambiò radicalmente. Vennero scritti libri, fatti film, venduti abiti, profumi e dischi.

Diana valeva più da morta che da viva. Cosa che a Hollywood sanno da quando Norma Jean ha lasciato il piccolo Jewel solo.

La tristezza a volte è l’unica compagnia che ti rimane. L’unica vera amica assieme alla solitudine. Il desiderio di sentirsi amate non perché si sembra, ma perché si è. Un amore vero, senza pregiudizio e scevro dal resto: la fama.

La bella principessa invece era sola nel suo castello, a lottare contro i draghi che invece del fuoco in bocca avevano la pellicola fotografica. Sola e disperata però ci ha insegnato una cosa: non credere al finale del vissero tutti felici e contenti; al massimo spera di vivere il tempo necessario per vedere i primi capelli bianchi…

 

 

Categorie: Al peggio non c'è mai fine, Biografie, Personaggi, Televisione

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