Wolfpack. Segregati (magistralmente) in casa….

Dopo aver visto “Il Cavaliere Oscuro”. Questo mi ha fatto credere che era possibile che qualcosa accadesse. Non perché era Batman, ma perché io sentivo che c’era un altro mondo; ho fatto tutto quello che ho potuto perché quel mondo diventasse reale, per sfuggire al mio mondo. (Mukunda Angulo)

Siamo in Agosto, il magico mese in cui le persone si trasformano in ozianti ed oziosi vacanzieri dotati di infradito, crema abbronzante e letture d’ogni sorta per scordare la suocera rompiballe che immancabilmente vi s’installa a casa in automatico, senza che voi abbiate avviato il download. Il mese della moglie in vacanza e l’amante (immancabilmente) bionda in città, dei delitti torbidi, dei caffè shackerati e delle canottiere tamarre. Il mese delle partenze intelligenti, delle grigliate e delle notti stellate come pretesto per i baci rubati sui sedili posteriori della Panda 30 color caffellatte di vostro nonno, prima di poter consumare col cambio piantato nelle natiche.

Ecco. Adesso provate ad immaginare di vivere coi vostri sei fratelli a New York. Ad Agosto. Chiusi in un appartamento del Lower East Side di Manhattan, quartiere violento e pericoloso in mano a gang e spacciatori. Fa caldo, siamo in Agosto, no? Siete voi e i vostri genitori. Guardate il mondo dall’alto del vostro tetro palazzone, guardate il mondo sfilare sotto di voi, ma voi non ne fate parte. Non potete farne parte perché i vostri vecchi non vogliono che voi ne facciate parte. Niente Panda 30, no. Niente crema solare. E nemmeno niente scuola, parco giochi, amici e notti di pigiama party. Solo il mondo dall’altra parte di vetri rotti e opachi, un posto pauroso e pieno di pericoli e i vostri genitori che vi tengono lontani. Il mondo la fuori non può entrare qui dentro e viceversa. Siete chiusi in casa, ma non potete stare dove volete voi, c’è chi decide in quali stanze potete stazionare e per quanto tempo. Ogni decisione è presa da chi vuole salvarvi dal male e dal pericolo.
Ma voi però quel mondo lo avete imparato a conoscere, a modo vostro, coi vostri mezzi; lo conoscete grazie al cinema. A migliaia di film che vostro padre vi ha portato e che voi avete guardato, divorato, centellinato, imparato e conosciuto. Ne avete trascritto i dialoghi, ne conoscete le sfumature così intimamente che nemmeno i registi possono. Conoscete il mondo perché lo avete guardato. Ma a modo vostro lo conoscete. E ne avete paura.

In questi giorni di forzato stop (caviglia e piede bloccati in una simpatica fasciatura) mi sono interrogato molto sulla detenzione volontaria e involontaria che le persone spesso sono costrette a subire. La mia “detenzione” sarà breve, anche se intensa, perché sono libero: libero di muovermi, di correre, saltare, poltrire quando e come voglio; possiedo un auto che mi consente di andare dove voglio o devo. Posseggo quella forma di libertà che ogni individuo, più o meno ha. Vedete, mi sono trovato a ragionare proprio su questo: la libertà, il potersi muovere senza dipendere da nessuno, la connessione col mondo esterno nonostante la lontananza (anche adesso, mentre voi leggete, siamo lontani forse migliaia di chilometri, ma in fondo vicinissimi) e la possibilità concreta di accedervi senza nessuno sforzo, senza dover chiedere nulla a terzi. La casualità ha deciso per me.
Durante uno sconfortante pomeriggio di immobilità ho avuto questa “visione”, è il caso di dirlo, e mi sono fermato. Sin dalla sua uscita mi ero ripromesso di vederlo; ma la vita, gli impegni e tanto altro scorrono, e tu passi davanti proprio a quel film, ti dici “poi lo guardo”, ma non lo fai mai. Non credevo di dirlo, ma devo ringraziare il maledetto gradino e la mia povera caviglia disastrata: mi sono fermato facendo una bella scorpacciata di film. Film che “poi guarderò” e altri che ho riguardato con gioia anarchica e desiderio infantile.
E quindi la mia prigione in sostanza è stata dorata. Senza saperlo io e i fratelli Angulo, di Lower Manhattan, abbiamo avuto per qualche giorno lo stesso destino. Abbiamo condiviso lo stesso modo di vivere, e vedere le cose. Anche se io, come loro, spesso vedo e guardo attraverso questo fallace filtro, questa lanterna magica che produce sogni. Ma andiamo con ordine.

Questa storia sembra uscita dalla mente mattacchiona di King o Lansdale, ma non è così. Nonostante da sempre desideri raccontarvi film inventati, questa volta è tutto reale. Come voi o io. La storia di questo strano, poetico, bellissimo documentario è vera e succede ancora adesso.
I fratelli Angulo sono sette: sei maschi e una ragazzina. Hanno tutti nomi Hare Krishna, non perché i genitori ne facciano parte, ma perché il padre era affascinato dall’idea di avere tanti figli con più mogli e farli vivere al di fuori del mondo. Il padre (padrone) Oscar è il sovrano assoluto di un paese inesistente. E’ un peruviano inca che potrebbe essere uscito da un romanzo di Garcia Marquez. Ha sposato (una sola donna) una ragazza americana e con lei si è trasferito a NY, per mettere assieme abbastanza denaro e trasferirsi in Scandinavia. Ma c’è un problema: Oscar non lavora, non vuole farlo perché (è uno sfaccendato) crede che i governi ti controllano, il lavoro ti schiavizza e quindi non puoi vivere la vita come meglio credi. A modo suo è un vero paladino della libertà. Ma è qui che tutto si complica. Perché i figli degli Angulo vengono tenuti lontani da tutto e tutti. Niente Scandinavia per la famiglia Angulo. Non possiedono un telefono o una connessione a internet. Non frequentano le scuole pubbliche, (la madre è abilitata all’insegnamento e ci pensa lei) non vanno alle feste, non hanno amici e per dieci anni sono usciti di casa al massimo nove volte in un anno. Negli anni brutti non hanno mai messo il naso fuori di casa. Lo hanno osservato dai vetri. E poi lo hanno vissuto attraverso i film. Si, perché questi ragazzi amano i film anche più di Henry Langlois, li amano di bruciante passione perché sono la loro finestra sulle vite degli altri. Ne guardano in continuazione e li reinterpretano con tanto di dialoghi, scenografie e costumi approntati con materiale di risulta; a modo loro sono geniali, fantasiosi, dei piccoli Melies chiusi in gabbia. Sono ragazzi speciali, te ne rendi conto subito; guardando nei loro occhi la tristezza si trasforma in qualcosa di strano. Non è dolore per la mancanza  di qualcosa, ma nostalgia verso quello che non hanno mai potuto vivere. Un rimpianto mediato dalla visione stereoscopica della vita, la nostalgia di un’assenza. Nonostante questo però sono ragazzi a modo loro sereni, che hanno saputo divertirsi e costruire un loro mondo interiore dove potersi rifugiare in solitudine.

 

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A volte bastano un po’ di scatole di cerali e tappetini da yoga: Melies e Wood insegnano…

 

Il padre Oscar è un personaggio strano. Non ti risulta simpatico, ma a modo suo riesce a farti capire il perché, la motivazione profonda per cui lui e la moglie (succube) hanno tenuto i figli a quel modo. E’ la paura verso il mondo, il bisogno di salvare la propria famiglia dal male, dalle droghe, dalla mediocrità e da un sistema di pensiero, educativo, sociale e morale ritenuto standardizzante e non ottimale per la formazione della gente.  Nell’assurdo (e inutile) tentativo di tenerli rinchiusi a un certo punto loro gli scappano di mano. Nel 2010 tutto cambia.

Mukunda, il figlio più grande, decide di andarsene in giro da solo, approfittando dell’assenza del padre. Decide di andare in giro con impermeabile di pelle e una delle sue maschere artigianali, per non essere eventualmente riconosciuto dal padre. Ovviamente la cosa finisce in un disastro: viene riportato a casa in manette e affidato ai servizi sociali, che lo portano in una clinica psichiatrica. Da allora le cose iniziano a cambiare.
Un sabato sera vanno tutti e sette al cinema. Soli. Hanno timore del mondo, ma si buttano. E’ commovente vedere con quanta cura si preparano, come se uscissero con una donna; è la sera di San Valentino e loro vanno incontro al cinema, al loro grande amore, nel luogo deputato alla visione. Finalmente possono vedere il cinema al Cinema, gli amanti si riuniscono. E le cose andranno meglio, devono farlo, perché la vita scorre e passa, si trasforma, si addolcisce, invecchia e noi dobbiamo farlo con lei. Gli stessi genitori si rendono gradualmente conto che non potranno tenerli così per sempre, che stanno crescendo e quindi avranno le loro vite. E’ la storia di un cambiamento, di un abbandono, di una presa (dolorosa) di coscienza che le cose, gattopardianamente cambiano, anche se lo fanno a modo loro.

Questo bellissimo film alla fine è cinema e metacinema; cinema che parla di se stesso e lo fa attraverso lo sguardo (dis)incantato di sei ragazzi che lo conoscono più della vita vera; è l’occasione più unica che rara di comprendere i meccanismi misteriosi e profondi di una macchina che solo in apparenza non ha più segreti, un mondo fatto di finzione che funziona su più livelli, esattamente come questo film. L’occasione di capire come e  perché il giocattolo funziona così bene, perché lo sguardo di questi ragazzi si è nutrito solo di questo. Una vera e propria indagine antropologica senza precedenti.
Vedere il mondo letteralmente solo attraverso un obiettivo, che come dice l’adagio non sempre è obiettivo ma fallace, sapere che quando il cinema parla di se stesso attraverso se stesso le cose non sono come sembrano. Gli Angulo sono cinefili non perché lo amano e basta, ma perché senza rendersene conto sono entrati a far parte dell’immaginario (proibitivo)  collettivo del vedere. Lo sono diventati nel momento in cui sono nati e tenuti nascosti al resto del mondo. Non lo sono perché si sentono superiori, ma perché hanno paura di una società sempre più schizofrenica, temono di soccombere alla cattiveria e alla mediocrità. Paradossalmente questa ossessione ha prodotto delle persone fatte  di cinema, una fotogenia estrinseca che da una parte salva e dall’altra distrugge quello che trova.

 

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Gli Angulo in uno dei loro giochi casalinghi: un po’ rockstar, un po’ star

 

Wolfpack è il branco di lupi, creature solitarie e della notte, ma al tempo stesso meravigliose e in pericolo. I fratelli Angulo sembrano usciti da un film, ma in realtà loro sono usciti proprio da migliaia di film, ne fanno parte a pieno titolo, sono loro stessi cinema perché  è come se ci fossero nati dentro.

Senza volerlo (?) il padre (padrone) si è trasformato in maieuta, un creatore (in)volontario di un posto nel mondo dove le cose accadono perché le si vedono attraverso lo schermo, che da contenitore di sogni si trasforma in contenente sogni. Il linguaggio poetico della solitudine che segrega il corpo, ma che non riesce mai, a nessuna condizione, a segregare lo spirito indomito di chi sa ancora che cambiare è possibile, anche grazie a delle storie inventate di sana pianta, tanto per non perdere l’abitudine di crederci..

Se vi va, mentre leggete, ascoltate il brano direttamente dalla O.S.T. Tanto per entrare in officina assieme a noi operai…

 

Categorie: Cinema, Cinematografo, Documentario, Personaggi

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