Il mostro dell’Hinterland

Il mostro dell'hinterland
Matteo Ferrario
Noir
Fernandel
2015
Brossura
173

Riccardo Berio sta scontando l'ergastolo per l'omicidio brutale degli zii, con cui divideva una villetta bifamiliare nell'hinterland milanese. La vita sessuale frivola e maleducata dei due anziani stride mettendo in ridicolo la vita scialba e solitaria del nipote, quarantenne fuori corso dalle molte passioni intellettuali che non sfociano in nulla nella vita reale; inetto ai rapporti umani e sentimentali, incapace di mantenersi senza l'eredità paterna. Il movente per l'omicidio commesso dal "mostro dell'hinterland", come subito viene battezzato dai media, va ovviamente ricercato nell'invidia per una vita allegra tenuta dagli zii, a dispetto della sua. Anni dopo la vicenda la casa nativa di Riccardo viene messa all'asta, e questo da lo spunto all'uomo per raccontare con caustica ironia tutta ergastolana la sua vicenda, per così dire, dal profondo.

Mi piacerebbe ringraziare di persona Matteo Ferrario per questo suo libro; gli offrirei volentieri una bella birra ghiacciata qui in Officina, e ne approfitterei per fare due chiacchiere. Sulla famiglia, sui rapporti malsani che a volte si instaurano tra i membri, le cose che non si dicono, quelle che non si diranno mai, i segreti, i nascondigli che trovano gli stessi per non essere rivelati a voce alta. Il mostro dell’hinterland è una lettura molto veloce e agevole, ma questo non significa che la consiglierei sotto l’ombrellone; è veloce perché l’autore è indubbiamente un gran signore che sa cosa dire e come dirlo senza tanti giri di parole. Non ricorre a sotterfugi, mezze strade già battute, frasi ad effetto. Scrive come parlerebbe un colto ingegnere fuori corso del Politecnico di Milano, un Nerd senza speranza alcuna di vivere davvero una vita tutta sua.

Riccardo Berio è un ergastolano, ma non perché una corte lo ha decretato dopo tre gradi di giudizio; lo è praticamente da quando è venuto al mondo, è una creatura infelice geneticamente parlando, un’essere solo sin dal primo vagito, un solitario senza speranza di redenzione. A Riccardo non interessano i rapporti umani perché forse, e dico forse, non ha ricevuto lo stimolo giusto per interagire; figlio unico di un agiato piccolo imprenditore, tutti si aspettano dal ragazzo che si laurei, intraprenda la carriera decretata dal nonno per lui, il padre e lo zio e che magari si sposi, continuando la discendenza dei Berio; una sorta di cavallo da riproduzione del ricco nord est laborioso e un po’ autistico, quello di chi lavora sempre per non divertirsi mai, e se si diverte, quando lo fa, si sente in colpa. Al contrario, lo zio Cesare, detto Cesarino, focoso stallone di provincia sempre arrapato, non ha remore. Vive e scopa come se non ci fosse un domani, e lo fa senza ritegno, lasciando il nipote sconvolto e un po’ nauseato.

Riccardo Berio è accusato del duplice omicidio del Cesarino, lo zio Berio, e la seconda moglie, infermiera della prima deceduta, tal Ivana, un’abruzzese un po’ sempliciotta. Entrambi focosi, allegri e festaioli; la versione invecchiata ma giovanile del nipote giovane ma invecchiato precocemente. Vengono ritrovati fatti a pezzi come cinghiali nei Piani di Bobbio, e da qui parte un nero circo di morte degno solo dei plastici di Porta a Porta e dei salotti attrezzati per i pornografi del trash.

Ad essere veramente alla sbarra qui non è un povero sfigato solitario; alla sbarra ci sono i vizi e le virtù fasulle del ricco nord, il compiacimento verso se stessi, il desiderio di vivere il proibito senza pagare il dazio pesante del sospetto e dell’ipocrisia che nasconde. L’ironia caustica e senza preconcetti del Berio è impareggiabile. Che volete, io sono un povero Capofficina rozzo e politicamente scorretto, a cui non interessa l’indulgenza tutta italiana verso la redenzione eterna post mortem; io adoro letture come questa, perché anche se non sembra, anche se  ben nascosta, la speranza fa sempre capolino tra le pieghe insidiose del dolore inespresso o espresso troppo tardi, la speranza verso un mondo dove le cose potrebbero anche girare a favore del protagonista.

Diciamolo senza tanti giri di parole: dopo la terza pagina inizi a tifare per quello sfigato senza eguali di Riccardo Berio. Perché è un nerd, perché è un solitario e soprattutto perché ti insinua il tarlo, (magari da vero manipolatore) della sua innocenza. Si racconta senza tante cerimonie, senza fronzoli o vuote inutili parole, parla di cosa è successo e lo fa senza sensazionalismo; qui non c’è suspance, non ci sono colpi di scena eclatanti; no, non è vero, ci sono, ma solo perché anche nella vita queste cose accadono veramente. Ferrario scrive una storia che sa prenderti senza prenderti la gola, ma solo  un po’ per le palle e un po’ per quel senso di solitudine che tutti i solitari possiedono a modo loro; è una narrazione che scorre; hai la sensazione che se non leggi fino alla fine, in fretta, potresti anche perdere qualcosa d’importante, potrebbe sfuggirti qualcosa.

La maliziosa compiacenza di Alda Pursino,  maliarda della televisione di stato, che senza tanti complimenti cerca di incastrarlo all’ennesima potenza dopo il processo in una delle sue puntate fiume del programma Vite dannate; Berio parla e non dice nulla, racconta senza svelare, non soddisfa la fame atavica di tutti i pornografi del crimine che guardano con voluttà in seconda serata del sabato la virago crudele che già ha condannato a priori qualunque intervistato. Lei lo incalza come farebbe una inquisitrice medievale,  ma Berio tiene testa a modo suo, e non crolla sotto i colpi del mostro sbattuto ad ogni costo in prima pagina.

Il suo avvocato, quello giovane e strafigo che più che del processo si interessa dei processi di massificazione della propria immagine; il cugino Giuseppe, unico personaggio umano di tutta la storia, l’unico che non crolla mai. I parenti serpenti che affollano i giardini e i pranzi del sabato a caccia di una sospirata eredità, la malcelata arroganza, l’indisponente strafottenza del Berio di fronte a un processo che lui sente perduto in partenza, una farsa costruita con abile mano da piemme, avvocati e mass media.

Senza dimenticare la terrificante Elena Tagliabue, la piemme fighetta che appena appare sulla scena la prenderesti a calci nei denti solo per vederne il sangue scorrere sulla bella bocca, la tremenda stronza che ti fa venir voglia di urlarle in faccia quanto è fetente ed ignorante, una fighetta prevenuta e senza scrupoli, che fa del teatro drammatico la sua arte prediletta, tanto per il gusto di far vedere chissà cosa. Le donne in carriera non ne escono bene, anzi, non ne escono bene le arriviste senza scrupoli come lei, per cui ti auguri possa esserci l’oblio eterno del tribunale amministrativo. Ogni prova è contro quel povero figlio del nulla che ti sembra non avere nessuna speranza.

Il mostro dell’hinterland è una lettura a suo modo complessa e semplicissima, una storia di verità nascoste e mai dette, perché tanto perdono importanza appena accadono, una storia da leggere senza pregiudizi, senza preconcetti; ricordandosi che la Santa Inquisizione Mediatica il più delle volte maschera la realtà a suo uso e consumo, che forse quello che crediamo non è vero, perché la verità è molto più banale, semplice e meravigliosa di ogni finzione messa in atto con lo scopo di stupire un popolo ormai sopito ed anestetizzato da secoli visionari di squartatori mostruosi della Porta Accanto. Berio è un mostro (dipende da che lato dello specchio stai guardando)  disincantato e cinico, che non si aspetta nulla. Aspetta e basta, aspetta che le cose succedano, anche senza di lui. La giustizia e il senso di colpa, la verità celata e il disincanto verso il mondo; Berio è tutto questo, senza tante cerimonie.

In realtà Riccardo Berio possiede la dostovieskiana speranza di un Raskolnikov; la speranza che forse, un volta fuori dal carcere, le cose potrebbero anche iniziare a girar davvero, perché ormai la vita ha invertito le coordinate.
La sua casa, quella dove è nato, quella dove i vecchiardi hanno perduto la vita, viene messa all’asta: da qui il nostro capisce cosa siano i rapporti malsani, imposti dalla natura ma non voluti; racconta e seziona, come un naturalista impazzito, la vita a modo suo.
forse la speranza, quella vera, potrebbe anche avere la forma di una sterlitzia, e basta avere la mano capace per saperne tirarne fuori i petali, anche se da fuori sembrano appassiti.

Non mi vergogno di dirvi, miei fedeli e disincantati amici, che al vostro solitamente arrapato Capofficina questo libro ha pure fatto sudare gli occhi, quel tanto da imperlare le guance (ho versato qualche lacrima, ok? Anche i metalmeccanici piangono) ricordandomi che l’umanità a volte si trova in posti che non ti aspetteresti.

Ve lo consiglio, questo libro? Si. Se non lo avete già letto, affrettatevi. Perché a volte si imparano più cose sulla carta che tra la terra e il cielo.

Quindi, Matteo Ferrario, la tua birra ghiacciata ti aspetta qui, nel mio ufficio, per te avrò sempre una lattina pronta…

Categorie: Libraio, Romanzi

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